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IL TEATRO DEL SILENZIO

Aron Reyr Sverrisson

31 maggio - 12 luglio 2008


Aron Reyr Sverrisson è nato e cresciuto a Reykjavik, e ha alle spalle gli studi all’Accademia di Belle Arti della sua città e una breve esperienza in quella di Roma. In linea con le tendenze dominanti nella pittura nordeuropea contemporanea -da Michaël Borremans a Tim Eitel, a Matthias Weischer- interpreta lo spirito del nostro tempo cogliendo istanti epici della vita quotidiana.
Nelle sue tele l’artista islandese racconta la tensione che c’è nell’assenza, quando il vuoto riempie di sé tutto lo spazio. Con una pittura di grande pulizia formale e precisione geometrica, descrive scorci di lande deserte e sconfinate o interni abbandonati, su cui incombono pochi oggetti, relitti allo stesso tempo familiari e misteriosi.
L’atmosfera dei quadri è dominata da quel sentimento di solitudine colma di presagio che è forse l’elemento di maggior fascino dell’opera. Una solitudine che non è mai angosciante, un vuoto che non è mai spettrale. Una solitudine che l’artista ha imparato a conoscere e ad amare fin da bambino, a contatto con la natura immensa e selvaggia della sua terra. I ritratti d’ambiente funzionano come piccoli teatri aperti al muto dialogo delle cose. “Quando dipingo mi sento come un regista che allestisce il set per le riprese e il quadro è una sorta di palcoscenico per la mia coscienza”, spiega Sverrisson. “Il mio intento è che lo spettatore lo possa utilizzare a sua volta come teatro per i propri ricordi e sentimenti”. Con una pittura misurata ed essenziale, che evita le descrizioni didascaliche, l’artista riesce a trasmettere a chi guarda il quadro la sensazione di partecipare all’evento che descrive. Una lampada e un tappeto tengono compagnia a un vecchio materasso, una scena desolata cui, sulla parete, fa eco una veduta di un’area industriale dismessa. Le impalcature tra gli edifici sembrano alludere a un ponte, ancorché precario, tra due esistenze. Una fila di poltrone anni Cinquanta in un’asettica sala d’aspetto evoca conversazioni forse mai avvenute. Due tele bianche, appoggiate contro il muro screpolato, fanno da contraltare al nero liquido della notte che penetra dalle finestre. Lingue di ghiaccio scivolano fino al mare sotto l’azzurro di un cielo smisurato. Sono scenari quotidiani e inaspettati, familiari e inquietanti, sempre affascinanti, in cui l’uomo, invisibile, è come sottinteso. Ne avvertiamo la presenza e ne immaginiamo l’esistenza, perché sentiamo l’eco dei suoi passi, vediamo le tracce del suo passaggio, gli oggetti che ha usato: il letto dove ha dormito, il ritratto che ha sfiorato con lo sguardo, la radio che gli ha tenuto compagnia, la finestra a cui si è affacciato. Ma lui, l’uomo, non c’è. Sono i luoghi a parlare della sua vita, a raccontare i drammi, i sogni, le speranze che ha nutrito. Sono le cose a tenere vivo il grande edificio del ricordo. La stanza o il paesaggio non sono che la scusa, il pretesto, la metafora, l’allegoria per imbrigliare e trattenere qualcosa di inafferrabile: la coscienza, i pensieri, le emozioni. Spostando e ricomponendo le tessere del suo mosaico personale, l’artista mette a nudo la propria anima. Raccolti in cornici dagli angoli arrotondati, che ricordano quelle delle vecchie fotografie o lo schermo del televisore, i suoi interni e le sue vedute paiono venire dal passato, immediati come flash. E insieme compongono una sorta di autobiografia per immagini, ricreando l’atmosfera di precisi momenti e luoghi della vita dell’artista, in cui lo spettatore è invitato a entrare e a curiosare, a confrontarli con il proprio vissuto o a immaginare storie e personaggi. Molto fa l’uso coraggioso degli accostamenti di colore, e la luce, che cade dall’alto, come a teatro, o filtra da una finestra, ed esercita la sua azione morbida sulla povertà degli ambienti, rivestendoli di una grazia inaspettata. Così si compie la metamorfosi del quotidiano, che, rischiarato dalla luce, si carica di mistero. Proprio come avviene a teatro.

 

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